Il Rapporto sul caso studio svizzero si sofferma in particolare sull'esperienza ticinese, mentre i dati generali riferiti al contesto nazionale sono ripresi nel Rapporto finale di progetto (disponibile su Internet, come da indicazioni di seguito riportate). L'analisi condotta contiene elementi che consentono di collocare l'esperienza della Svizzera - alle prese, negli anni '90, con la crescente pressione dei flussi di asilo - in un quadro piu' ampio riferito al contesto europeo. L'attenzione su uno studio di caso delimitato consente di verificare, alla prova dei fatti, gli effetti positivi, come i limiti della politica di accoglienza ai richiedenti l'asilo praticata in Svizzera dopo la revisione della normativa dell'inizio anni '90.. In generale i dati raccolti dimostrano come tra anni '70 e 2000 la Svizzera sia riuscita a perseguire l'obiettivo di ridurre progressivamente il numero dei rifugiati ospitati nel paese, ma non la pressione in ingresso degli esuli e dei profughi, sia accolti provvisoriamente (con decisioni umanitarie) in occasione di conflitti, sia entrati piu' o meno clandestinamente nella speranza di ottenere asilo. Le politiche adottate dalle autorità federali a partire dal 1990, e la crisi economica e sociale nel frattempo esplosa, hanno procurato - come si voleva - crescenti problemi di integrazione lavorativa (e sociale) ai richiedenti l'asilo nelle fasi "istruttorie" di permanenza. Tali problemi non sono tuttavia risultati sufficienti a ridimensionare del tutto l'attrattività del paese agli occhi degli asilanti, ma hanno provocato piuttosto fenomeni di diffusione del lavoro irregolare (e talvolta della micro-criminalità organizzata) tra singole componenti di richiedenti l'asilo e una cronica lentezza del processo di integrazione sociale - e prima di tutto lavorativa - dei rifugiati nel momento dell'acquisizione dello statuto e del permesso definitivo di soggiorno. Lo studio conferma i risultati delle indagini già sviluppate in Svizzera negli anni recenti. In generale l'essersi inseriti in un Cantone piuttosto che in un altro si è rivelato determinante, a causa delle diverse condizioni economiche e dei mercati locali del lavoro, al fine di potersi integrare sul piano professionale Ma le diverse culture locali e le condizioni concrete dell'insediamento (palazzi periferici piuttosto che abitazioni rurali) hanno influito anche sul piano delle chances di integrazione sociale. Da quest'ultimo punto di vista sembra di poter affermare che per i bosniaci si è rivelata particolarmente difficile l'integrazione nel contesto di vita urbano, e negli appartamenti dei quartieri delle periferie dove in genere le famiglie dei rifugiati (e dei richiedenti l'asilo) sono state accolte. In Ticino, ad esempio, questa scelta di insediamento ha creato a detta di alcuni grandi problemi di inserimento e ricostruzione delle reti sociali, mentre si sarebbero potute trovare soluzioni alternative disponendo il territorio di una diffusa struttura insediativa rurale in grado di agevolare l'integrazione. Difficoltà importanti all'integrazione dei rifugiati nel nuovo contesto socio-economico sono anche venute dall'intreccio tra caratteristiche della popolazione bosniaca e politiche di ammissione e sostegno economico dei rifugiati praticate. Giunti nella fase cruciale di ridisegno in senso restrittivo della politica di asilo i bosniaci hanno trovato una Svizzera incerta sul da farsi, l'accoglienza è avvenuta nella forma della provvisorietà ma nel rispetto delle condizioni umanitarie e dei benefici previsti in questo caso dalle politiche sociali (vedi il paragrafo concernente le misure). Articolandosi in modo assai complesso, le procedure di ammissione e di istruttoria delle richieste di asilo hanno determinato un mix di paure, aspettative, intricate ed eterogenee condizioni all'interno della comunità e dei nuclei famigliari - con aumento globale del senso di provvisorietà e chiusura rispetto a prospettive di integrazione che avrebbero potuto rivelarsi illusorie. In una situazione di crisi economica, anche una volta esaurito il periodo di divieto di lavoro le possibilità di ingresso nel mercato del lavoro dei bosniaci si sono rivelate modeste. Diverse caratteristiche socio-demografiche della comunità si sono rivelate penalizzanti ai fini dell'inserimento attivo. Lo studio conferma anche in questo caso i risultati delle ricerche condotte negli ultimi anni, che hanno evidenziato gli ostacoli all'integrazione nel mercato del lavoro (e attraverso di essa, l'inserimento sociale) dei rifugiati in Svizzera. In Ticino sono inoltre emersi specifici fattori critici di ostacolo all'inserimento: crisi del modello di industrializzazione e sviluppo locale, aumento della disoccupazione, concorrenza sul mercato del lavoro di altri componenti straniere e autoctone disponibili a lavorare a condizioni competitive e "piu' gradite" ai datori di lavoro locali. In un circolo vizioso la scarsa integrazione professionale (e sociale) dei bosniaci, pur senza generare tensioni evidenti, ha determinato una crescente e stereotipata diffidenza, quando non ostilità, della società locale, inspiegabile alla luce delle dimensioni e dell'effettiva modesta pressione determinata sul territorio dalla presenza dei richiedenti l'asilo. Il caso studio ticinese dimostra - in conclusione - come l'adozione combinata di norme rigorose e selettive in materia di asilo e di politiche umanitarie di accoglienza temporanea dei profughi in caso di eventi bellici o politici traumatici, possa essere funzionale ad arginare fenomeni incontrollabili di immigrazione ma non sia in grado di impedire l'insorgere di problemi seri di integrazione quando dalla situazione di bisogno temporaneo di asilo si passa - come spesso avviene - alla necessità di garantire definitivo rifugio ai perseguitati. Si rendono allora indispensabili misure straordinarie - generalmente costose, di lenta efficacia e dagli esiti mai scontati, anche quando il successo è indubbio come nelle situazioni analizzate nella ricerca - per impedire che la logica dei due tempi - e dei due volti dell'accoglienza - si traduca poi nell'insorgere, presso la comunità dei rifugiati riconosciuti, di seri problemi di dipendenza dalle fonti assistenziali, e di una tendenza all'isolamento e alla chiusura nei propri valori che impedisce, non meno dell'intolleranza delle popolazioni locali, il processo di mediazione interculturale.